Un Pensiero per il 25 Aprile

La prima foto è stata scattata a piazza S. Marco in un giorno di Maggio del 1968.
L’autore dello scatto è Gianni Berengo Gardin, uno dei miei fotografi preferiti e indisputabilmente uno dei più rilevanti del ventesimo secolo.
La sua opera ha attraversato diversi decenni e ci ha lasciato scatti pervasi da un realismo elegante, esclusivamente in bianco e nero, accompagnato da una profonda e generosa passione documentaristica. Dai reportage nei manicomi negli anni sessanta, a quelli sulle grandi navi a Venezia negli anni duemila, Berengo Gardin è stato testimone costante e originale di tutto un secolo.
Se cercate su Rai Play, troverete una bellissima intervista-documentario di qualche anno fa.

Ungaretti Piazza S. Marco

Questa foto è uno scatto quasi estemporaneo, ha una sua natura giornalistica. Non è particolarmente costruito, eppure ha una rilevanza storica notevole. Quel giorno, a Venezia, era in corso una manifestazione di protesta del movimento studentesco contro la Biennale. Quella manifestazione fu uno dei primi passi verso la nascita di quello che è diventato poi il 68 italiano. Il punto conteso era la modifica dello statuto della biennale, la cui versione originale risaliva al 1930. Nella foto si nota un gruppo di studenti, nemmeno numerosissimo. Sono gli appartenenti al movimento studentesco, che decise di scendere in piazza S. Marco per protestare. Il signore anziano che saluta gli studenti in maniera cordiale e sorridente, e da essi è ricambiato con ammirazione e altrettanta cordialità, è il poeta Giuseppe Ungaretti, premio Nobel per la letteratura. Alla data della foto, Ungaretti ha ottant’anni.  Saluta gli studenti che espongono cartelli che recitano “No alla cultura dei padroni” e, satiricamente, “Arte e Moschetto Centro-Sinistra perfetto!”

La protesta, come si vede dalla foto, è un pacifico sit-in. Gli studenti sorridono, Ungaretti sorride, sorride la sua compagna. In questa foto è condensato un piccolo frammento di memoria di un momento importante della nostra storia recente ed è anche la documentazione di un oblìo. Si, perché l’uomo a cui gli studenti antifascisti sorridono con ammirazione, quarant’anni prima scriveva lettere appassionate e supplichevoli a Benito Mussolini perché questi gli scrivesse la prefazione per il suo capolavoro poetico: “Il porto sepolto”.

Ungaretti fu fra le figure intellettuali di riferimento dell’ascesa del regime fascista in Italia. Nel 1919, su “Il Popolo d’Italia” scriveva:

“Patria e rivoluzione: ecco il grido nuovo. (…) Aderisco ai fasci di combattimento, il solo partito che intende la tradizione e l’avvenire, in modo genuino.”

E ora eccolo qui, quarant’anni dopo, quasi acclamato da studenti di estrema sinistra che protestano contro “la cultura dei padroni” , che gridano “no alla biennale della polizia” e che usano vecchi slogan fascisti in maniera satirica contro il primo governo di centro-sinistra della storia italiana. Per quanto singolare e curiosa possa sembrare la vicinanza fra ragazzi del movimento studentesco e una persona che non ha mai documentato in vita sua una presa di distanza dalla sua adesione al fascismo, questa foto è un esempio straordinario della grandezza di quello che siamo riusciti a fare, come comunità democratica, negli ultimi settantacinque anni.
Il diritto all’oblìo è uno dei cardini di una società libera e aperta, democratica e tollerante. La tolleranza è  una delle basi di ciò che definiamo, pur senza essere unanimemente d’accordo sui dettagli della definizione, libertà.

La convivenza civile in una società democratica non può prescindere né dal diritto all’oblìo, né dalla tolleranza.

Prendete, per esempio, la seconda foto, questa:

Capture

Questa foto è stata scattata, sempre da Gianni Berengo Gardin, nello stesso giorno, anzi qualche minuto dopo la prima. Senza un motivo apparente, senza che ci fossero stati disordini, in una Piazza S. Marco di certo non affollata, la Polizia in assetto antisommossa ricevette l’ordine di caricare i manifestanti.

Questa foto mi piace molto, proprio esteticamente, pur senza dimenticarmi della sua drammaticità e pur nella sua totale e improvvisazione e imperfezione tecnica: ol mosso, le figure sfocate, l’orizzonte sbieco, causato dalla concitazione del momento. Vi si nota un celerino col manganello correre verso la carica.  Mi ricorda una scultura futurista di Umberto Boccioni.

Una delle tante cose che il regime fascista portò alle estreme consequenze, nella sua esasperazione autoalimentata, è il concetto di monopolio della violenza. L’idea che lo Stato sia l’unico titolato a esercitare in maniera legittima la violenza è un assunto del sociologo tedesco Max Weber, che lo formulò proprio negli anni in cui i regimi totalitari del ventesimo secolo stavano prendendo il potere. Per Weber, il monopolio della violenza è una concessione necessaria all’interno del contratto sociale, per cui i cittadini di una comunità delegano allo Stato e solo allo Stato il diritto legittimo di esercitare qualsiasi forma di violenza. E’ paradossale come il fascismo, che era arrivato al potere fra il 1919 e il 1921 proprio sovvertendo questo principio, cioé arrogandosi il diritto alla violenza privata e squadristica contro i “nemici della nazione”,  se ne sia poi servito in maniera massiccia, una volta giunto al potere, con le leggi speciali e trasferendo di fatto molta se non tutta la linea politica dello squadrismo nel codice unico di pubblica sicurezza, sancendo di fatto quello che si definisce stato di polizia , precursore ma intrinsecamente opposto allo Stato di diritto. Se quel seme, piantato allora,  abbia poi germinato una sorta di fascinazione che poi si riaffaccia nel dibattito pubblico, soprattutto in momenti di crisi, è un argomento che ogni tanto leggo e trovo interessante. Pensate al dibattito sui decreti “Salvini”. Molti di essi contengono prescrizioni che non avrebbero sfigurato nel decreto unico di pubblica sicurezza del primo governo Mussolini, eppure quei decreti hanno avuto l’appoggio e il supporto di partiti politici, opinion leaders e settori di società civili che non vengono considertai fascisti o appartenenti all’estrema destra.  La storia repubblicana ha vissuto nei decenni diversi diversi momenti bui, in cui la forza dello stato di diritto ha tentennato. Pensate alla repressione di Scelba. Pensate agli anni di piombo, pensate a Genova nel 2001. Non si può (almeno io non ci riesco) rifuggire alla suggestione che molta della violenza di Stato che abbiamo vissuto nel secondo dopoguerra abbia qualcuna delle sue radici proprio in quella concezione esasperata e pervasiva dello Stato monopolista della violenza, per come è nato negli anni venti del secolo scorso.

Questa fascinazione forte per l’idea che lo Stato eserciti il suo monopolio di gestione della violenza in maniera più forte e decisa, come contropartita securitaria del contratto sociale,  in Italia ha un suo seguito e un suo appeal che torna in auge nei momenti di crisi. In misura più ridotta, ne sono dimostrazione le vicende di questi ultimi mesi e il dibattito riguardo la necessità di rafforzare il controllo polizesco sulla disciplina della quarantena durante la pandemia.

Inoltre, rimane un paradosso gigantesco e irrisolvibile (almeno, io non riesco a risolverlo), fra la necessità di una società aperta di essere libera e tollerante e la fascinazione per l’intervento statale, anche violento, di fronte all’intolleranza. E’ la solita vecchia storia del livello di tolleranza e del diritto di oblìo che deve o può essere garantito agli intolleranti in nome della libertà.

Per questo, proprio per quest’impossibiltà di risolvere il paradosso, provo sempre un certo imbarazzo in questo giorno, quando ascolto e leggo gli appelli dei tanti benitnenzionati che chiedono interventi forti e decisi contro i rigurgiti idioti di vari neofascisti, nostalgici, scemi di varia natura. C’è una parte di me che proprio non riesce a dimenticare che proprio la presenza di quegli scemi e il fatto che andiamo avanti sia la testimonianza della grandezza di ciò che siamo riusciti a realizzare negli ultimi 75 anni.

Io sono fra quelli che credono che testimoniare questa grandezza, oggi e sempre, sia il modo migliore per continuare a preservarla e sicuramente un modo molto più efficace e giusto che mandare i carbinieri a Predappio.

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