When Fancy Clear Takes In All Beauty With an Easy Span

Esattamente 30 anni fa, a quest’ora, mi sedevo di fronte a una signora graziosa ed elegante.
Me la ricordo benissimo, ancora oggi: occhi cerulei, capelli biondo cinerino aggiustati in una messa in piega curata, incarnato appena velato da un anticipo di abbronzatura. Poco più di cinquant’anni, portati con fresca e fine compostezza, il filo di perle, la camicetta bianca, i sandali col tacco medio, un accento siciliano molto forte. Tutte queste cose me le ricordo ancora oggi, nitide e indelebili.

Quello che ho rimosso completamente sono i dettagli di ciò che le raccontai. Di sicuro aveva a che fare coi poeti romantici inglesi: la nostra conversazione iniziò da lì. Lei iniziò prendendomi in giro, mi disse: hai gli occhi chiari e i capelli lunghi (l’ho già detto che fanno 30 anni proprio oggi, no?), potresti impersonare un poeta romantico inglese in una recita. Me lo disse in inglese, e per magia il suo accento scomparve. Cominciammo da lì: da Keats e Shelley, forse Byron. Sicuramente devo aver parlato anche di Byron. Di sicuro avevo una strategia per conquistarla: dovevo unire i punti fra gli improbabili paralleli che credevo di avere scoperto, nella mia goffa emulazione di critico letterario con l’accento cockney di Battipaglia. Dovevo arrivare in un modo o nell’altro a Yeats e Wilde. Perché pensavo che oramai dovessero saperlo tutti: Keats and Yeats are on your side, while Wilde is on the mine.

Lei: What do you like the most about Yeats?
Io: Well, I think his mystical approach to reality.
Lei: Ohhh, I see.
Questa scambio me lo ricordo. Il resto no.
Se non avessimo tutte le fesserie che ci raccontiamo sui riti di passaggio, imbastendo per le nostre vite noiosissime versioni in sedicesimi di romanzi di formazione, come potremmo mai accettare di buon grado la banalità della vita? La vita, più spesso che no, è banale. Il tedìo è spesso la sua sublime cifra distintiva.
La maturità, il racconto nostalgico dell’esame di Stato è un genere stile ombelicalista nostalgico e il mio non fa differenza. La mia maturità, nel senso di esame di Stato, più che un rito di passaggio fu un cartellino timbrato. Né il primo né l’ultimo di una lunga serie di rospi da inghiottire, che l’esistenza era pronta a servirmi, di lì in avanti, con mise en place differenti a seconda delle occasioni.
Il mio esame di maturità , nell’anno domini 1990, si consumò così, con quel bizzarro tentativo di affabulazione di una bella signora matura, con quel grottesco flirt preterintenzionale. Lei fu gentile, oltremodo gentile: non mi interruppe se non con incoraggianti very well e of course.
In meno di mezz’ora era tutto finito. Era il sette luglio del 1990, le due Germanie stavano finalizzando il trattato di riunificazione. Un mese prima, più o meno, avevamo visto in comitiva l’atto finale della trilogia di Ritorno al Futuro, il ché aveva sancito  ça va sans dire, la fine degli anni ottanta e della nostra adolescenza in un colpo solo, e un altro film, Heathers, mi aveva fatto scintillare l’amore per Winona Ryder. Sempre un mese prima, più o meno, avevo preso parte al primo referendum abrogativo della storia della repubblica che non avrebbe raggiunto il quorum. I democristiani governavano il mio paesello da quarant’anni e i valvassori del partito socialista facevano i guappi e gli smargiassi per la strada. I paninari, che Dio li stramaledica in eterno, finalmente erano morti e noi sparuti pasdaran della nostra sciancata rivoluzione new wave, vivemmo quei mesi d’estate italiana con un senso di esaltazione. Il Napoli aveva appena vinto il suo secondo scudetto e quello stesso giorno in cui io provavo improbabili tattiche di seduzione parlando inglese a quella distinta signora siciliana, un siciliano doc avrebbe piantato un palo nel cuore degli inglesi, vincendo la classifica dei cannonieri in quello stranissimo mundial italiano. I quaderni ce li ho ancora, da qualche parte , a casa dei miei. L’antologia di letteratura era inzeppata di ritagli di “La Repubblica” e di “Cuore”. Gli articoli di Beneamino Placido, Alberto Ronchey, Gianni Brera, Norberto Bobbio, Stefano Rodotà, Alex Langer, Luigi Manconi e una lettera di Wolfgang Amadeus Mozart a suo padre Leopold, quella in cui gli racconta di pensare ogni giorno alla morte. La mia formazione disordinata, un po’ verde e un po’ radicale, anticomunista ché avevo gioito a vedere il muro cadere. Qualche mese dopo sarebbe uscito “Fino alla fine del mondo” e avremmo scoperto Wim Wenders con l’ingenuità provincialotta di chi crede di aver scoperto un universo estetico e di comprendere cose che alla maggior parte dell’umanità sfuggono, solo che poi il mondo non finisce, si cresce, i gusti cambiano, e più si raffinano più ci si vergogna della propria ingenuità. Rivisto oggi, quel film mi fa tenerezza nel suo essere così pretenzioso, ma la colonna sonora era zeppa di tutti quelli che amavo di più. La primavera successiva sarebbe uscito Out of Time e poi, nel giro di tre o quattro anni, alcuni dei dischi più meravigliosi della storia, altro che Keats e quel fascista di Yaets. Niente a che vedere con l’evanescenza del ricordo di una chiacchierata in cui credo di non essere riuscito a far entrare Oscar Wilde.
Il 1990 fu un piccolo giro di boa, non voglio scendere quella china che, prima che tu te ne accorga, ti porta dalla riflessione ragionata sul ricordo alla retorica sciapa di Walter Veltroni, però lo fu, un giro di Boa. Nella nostra ingenuità di ragazzini, ci saremmo esaltati nel vedere che tanta della bellezza che avevamo coltivato con pazienza da giardinieri sarebbe diventata mainstream.
A dire il vero, si sentivano i primi botti di guerra proprio al confine, ma non ricordo di averci fatto caso. Dovevano passare un paio d’anni ancora, perché tutti iniziassimo a chiederci, guardando la gente cadere sotto i colpi dei cecchini mentre andava al mercato, come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto?
In realtà, di quell’estate del 1990 mi è rimasta solo un’eco vaga di un senso di spaesamento euforico, ma forse erano solo i diciott’anni e – eddai metticela una citazione di De André – mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani. Da lì in poi, da quel giorno in poi, tante cose avrei dovuto fare, alcune le ho fatte, più o meno benino o malino e altre no. Oggi, prendendo questo anniversario come scusa per fare il mio esercizietto di nostalgico ombelichismo, penso a tutti quelli che ho conosciuto, nel frattempo, a quelli che sono rimasti e a quelli che per vari motivi non ci sono più e questi ultimi, purtroppo, sono molti più di quanto sarei disposto ad ammettere. Il poeta canterebbe: live your life filled with joy and thunder. Se ci riesci.
La maturità non serve a nulla, la scuola non serve a nulla, nessuna istituzione serve a nulla se non ti insegna che la caratteristica distintiva del passaggio degli homo sapiens sapiens su questo pianeta risiede nel cambiamento e che la nostalgia è la forma più alta e diabolica di inganno.
Nessun giudizio, voto, verdetto emanato da svogliati impiegati statali sarà mai un predittore del tuo successo nella vita, qualunque significato tu dia alla parola successo. La mente umana è duttile, lo spirito è flessibile, l’anima cresce. Ognuno di noi ha bisogno degli stimoli giusti e dell’ambiente adatto a sbocciare e fiorire. Se mi dite che questi stimoli si trovano nella scuola non vi voglio contraddire, ma concedetemi il beneficio del dubbio. Lo dico con il massimo rispetto per chi ci lavora.
Io mi sono convinto in questi anni che due o tre istituzioni vadano ripensate radicalmente, nelle strutture, nelle infrastrutture e nei processi. La scuola è fra queste. Le altre sono il carcere, l’amministrazione della giustizia e il fisco. Ne sono convinto da tempo, ma non voglio certo evangelizzare nessuno. Al limite far ascoltare le mie ragioni, quando mi rimane un po’ di tempo libero.
Sentitevi liberi di credere che la scuola vada bene così come è e che io abbia torto e che la maturità sia quel momento cruciale in cui l’individuo ha l’onore e l’onere di mostrare alla comunità e al sistema di essere pronto ad entrare nel mondo dei grandi. Probabilmente è proprio così.
Un paio d’anni dopo quel sette luglio del 90, un giorno, ero a Roma con mio cugino. Gli proposi di andare a visitare la casa di Keats e Shelley a Piazza di Spagna. Salimmo su al primo piano e ricordo che mi misi a fotografare le librerie stracolme di volumi antichi. Poi, mentre lui parlava con la guida, dalla finestra mi misi a osservare i turisti su Trinità de Monti. Chissà, mi chiedevo, cosa avrà visto il John Keats venticinquenne, tisico, prossimo alla morte, da questa stessa finestra, centosettanta anni prima. Chissà se ha intuito per un attimo, unite e indissolubili, la profondità della sua tragedia e l’immensità della sua fortuna. Un argomento di cui avrei potuto parlare benissimo durante il mio esame di maturità. Non credo di averlo fatto, ma non mi ricordo più tanto bene.

Un Pensiero per il 25 Aprile

La prima foto è stata scattata a piazza S. Marco in un giorno di Maggio del 1968.
L’autore dello scatto è Gianni Berengo Gardin, uno dei miei fotografi preferiti e indisputabilmente uno dei più rilevanti del ventesimo secolo.
La sua opera ha attraversato diversi decenni e ci ha lasciato scatti pervasi da un realismo elegante, esclusivamente in bianco e nero, accompagnato da una profonda e generosa passione documentaristica. Dai reportage nei manicomi negli anni sessanta, a quelli sulle grandi navi a Venezia negli anni duemila, Berengo Gardin è stato testimone costante e originale di tutto un secolo.
Se cercate su Rai Play, troverete una bellissima intervista-documentario di qualche anno fa.

Ungaretti Piazza S. Marco

Questa foto è uno scatto quasi estemporaneo, ha una sua natura giornalistica. Non è particolarmente costruito, eppure ha una rilevanza storica notevole. Quel giorno, a Venezia, era in corso una manifestazione di protesta del movimento studentesco contro la Biennale. Quella manifestazione fu uno dei primi passi verso la nascita di quello che è diventato poi il 68 italiano. Il punto conteso era la modifica dello statuto della biennale, la cui versione originale risaliva al 1930. Nella foto si nota un gruppo di studenti, nemmeno numerosissimo. Sono gli appartenenti al movimento studentesco, che decise di scendere in piazza S. Marco per protestare. Il signore anziano che saluta gli studenti in maniera cordiale e sorridente, e da essi è ricambiato con ammirazione e altrettanta cordialità, è il poeta Giuseppe Ungaretti, premio Nobel per la letteratura. Alla data della foto, Ungaretti ha ottant’anni.  Saluta gli studenti che espongono cartelli che recitano “No alla cultura dei padroni” e, satiricamente, “Arte e Moschetto Centro-Sinistra perfetto!”

La protesta, come si vede dalla foto, è un pacifico sit-in. Gli studenti sorridono, Ungaretti sorride, sorride la sua compagna. In questa foto è condensato un piccolo frammento di memoria di un momento importante della nostra storia recente ed è anche la documentazione di un oblìo. Si, perché l’uomo a cui gli studenti antifascisti sorridono con ammirazione, quarant’anni prima scriveva lettere appassionate e supplichevoli a Benito Mussolini perché questi gli scrivesse la prefazione per il suo capolavoro poetico: “Il porto sepolto”.

Ungaretti fu fra le figure intellettuali di riferimento dell’ascesa del regime fascista in Italia. Nel 1919, su “Il Popolo d’Italia” scriveva:

“Patria e rivoluzione: ecco il grido nuovo. (…) Aderisco ai fasci di combattimento, il solo partito che intende la tradizione e l’avvenire, in modo genuino.”

E ora eccolo qui, quarant’anni dopo, quasi acclamato da studenti di estrema sinistra che protestano contro “la cultura dei padroni” , che gridano “no alla biennale della polizia” e che usano vecchi slogan fascisti in maniera satirica contro il primo governo di centro-sinistra della storia italiana. Per quanto singolare e curiosa possa sembrare la vicinanza fra ragazzi del movimento studentesco e una persona che non ha mai documentato in vita sua una presa di distanza dalla sua adesione al fascismo, questa foto è un esempio straordinario della grandezza di quello che siamo riusciti a fare, come comunità democratica, negli ultimi settantacinque anni.
Il diritto all’oblìo è uno dei cardini di una società libera e aperta, democratica e tollerante. La tolleranza è  una delle basi di ciò che definiamo, pur senza essere unanimemente d’accordo sui dettagli della definizione, libertà.

La convivenza civile in una società democratica non può prescindere né dal diritto all’oblìo, né dalla tolleranza.

Prendete, per esempio, la seconda foto, questa:

Capture

Questa foto è stata scattata, sempre da Gianni Berengo Gardin, nello stesso giorno, anzi qualche minuto dopo la prima. Senza un motivo apparente, senza che ci fossero stati disordini, in una Piazza S. Marco di certo non affollata, la Polizia in assetto antisommossa ricevette l’ordine di caricare i manifestanti.

Questa foto mi piace molto, proprio esteticamente, pur senza dimenticarmi della sua drammaticità e pur nella sua totale e improvvisazione e imperfezione tecnica: ol mosso, le figure sfocate, l’orizzonte sbieco, causato dalla concitazione del momento. Vi si nota un celerino col manganello correre verso la carica.  Mi ricorda una scultura futurista di Umberto Boccioni.

Una delle tante cose che il regime fascista portò alle estreme consequenze, nella sua esasperazione autoalimentata, è il concetto di monopolio della violenza. L’idea che lo Stato sia l’unico titolato a esercitare in maniera legittima la violenza è un assunto del sociologo tedesco Max Weber, che lo formulò proprio negli anni in cui i regimi totalitari del ventesimo secolo stavano prendendo il potere. Per Weber, il monopolio della violenza è una concessione necessaria all’interno del contratto sociale, per cui i cittadini di una comunità delegano allo Stato e solo allo Stato il diritto legittimo di esercitare qualsiasi forma di violenza. E’ paradossale come il fascismo, che era arrivato al potere fra il 1919 e il 1921 proprio sovvertendo questo principio, cioé arrogandosi il diritto alla violenza privata e squadristica contro i “nemici della nazione”,  se ne sia poi servito in maniera massiccia, una volta giunto al potere, con le leggi speciali e trasferendo di fatto molta se non tutta la linea politica dello squadrismo nel codice unico di pubblica sicurezza, sancendo di fatto quello che si definisce stato di polizia , precursore ma intrinsecamente opposto allo Stato di diritto. Se quel seme, piantato allora,  abbia poi germinato una sorta di fascinazione che poi si riaffaccia nel dibattito pubblico, soprattutto in momenti di crisi, è un argomento che ogni tanto leggo e trovo interessante. Pensate al dibattito sui decreti “Salvini”. Molti di essi contengono prescrizioni che non avrebbero sfigurato nel decreto unico di pubblica sicurezza del primo governo Mussolini, eppure quei decreti hanno avuto l’appoggio e il supporto di partiti politici, opinion leaders e settori di società civili che non vengono considertai fascisti o appartenenti all’estrema destra.  La storia repubblicana ha vissuto nei decenni diversi diversi momenti bui, in cui la forza dello stato di diritto ha tentennato. Pensate alla repressione di Scelba. Pensate agli anni di piombo, pensate a Genova nel 2001. Non si può (almeno io non ci riesco) rifuggire alla suggestione che molta della violenza di Stato che abbiamo vissuto nel secondo dopoguerra abbia qualcuna delle sue radici proprio in quella concezione esasperata e pervasiva dello Stato monopolista della violenza, per come è nato negli anni venti del secolo scorso.

Questa fascinazione forte per l’idea che lo Stato eserciti il suo monopolio di gestione della violenza in maniera più forte e decisa, come contropartita securitaria del contratto sociale,  in Italia ha un suo seguito e un suo appeal che torna in auge nei momenti di crisi. In misura più ridotta, ne sono dimostrazione le vicende di questi ultimi mesi e il dibattito riguardo la necessità di rafforzare il controllo polizesco sulla disciplina della quarantena durante la pandemia.

Inoltre, rimane un paradosso gigantesco e irrisolvibile (almeno, io non riesco a risolverlo), fra la necessità di una società aperta di essere libera e tollerante e la fascinazione per l’intervento statale, anche violento, di fronte all’intolleranza. E’ la solita vecchia storia del livello di tolleranza e del diritto di oblìo che deve o può essere garantito agli intolleranti in nome della libertà.

Per questo, proprio per quest’impossibiltà di risolvere il paradosso, provo sempre un certo imbarazzo in questo giorno, quando ascolto e leggo gli appelli dei tanti benitnenzionati che chiedono interventi forti e decisi contro i rigurgiti idioti di vari neofascisti, nostalgici, scemi di varia natura. C’è una parte di me che proprio non riesce a dimenticare che proprio la presenza di quegli scemi e il fatto che andiamo avanti sia la testimonianza della grandezza di ciò che siamo riusciti a realizzare negli ultimi 75 anni.

Io sono fra quelli che credono che testimoniare questa grandezza, oggi e sempre, sia il modo migliore per continuare a preservarla e sicuramente un modo molto più efficace e giusto che mandare i carbinieri a Predappio.

Il futuro è il lavoro difficile che abbiamo cominciato ieri.

Vediamo se riesco a metterla giù in modo che si capisca e senza essere frainteso: Il 4 Marzo io voto PD.  Fin qui niente di nuovo. Ripeto cose dette già in passato, perché più spesso che no fare politica significa ripetere cose già dette, raffinandole per strada. Ripeto ancora: fare politica non è votare. Votare è una cosa che si fa ogni tot di anni. Non è nemmeno ascoltare la radio o litigare su facebook. Fare politica è anche quello, ma pure tutto quello che si fa nel frattempo, cioè tutti i giorni, cioè sempre.
Almeno per me. Fare politica è partecipare a un progetto per costruire il futuro. Quanta fatica mi è costata in questi anni; e tempo; e soldi; e energie; e incazzature. Tante. L’ho detto già altre volte, lo so. Facciamo che questa è l’ultima volta che lo dico.
In politica, quando la fai, c’è di tutto, così come in tutti gli altri campi dell’esistenza. C’è gente più o meno intelligente, più o meno sognatrice, più o meno ambiziosa, più o meno stronza, più o meno simpatica, più o meno onesta. Dovunque. Ognuno di noi ha un “profilo”, ovvero una combinazione delle cose che ho elencato e di altre che non ho elencato. La politica ha bisogno di “profili umani” diversi, di motivazioni e ambizioni diverse. Pensate cosa succederebbe se tutti i 60 milioni di italiani avessero come unica ambizione quella di diventare presidente della repubblica: sarebbe la guerra civile.

Per me la politica è sempre stata una cosa un po’ morettiana (nel senso di Nanni, si, purtroppo): sapete, quel cliché stantìo dell’essere in minoranza? Quel luogo comune elitario e narcisista di quelli che pensano che Keplero e Copernico abbiano scoperto che tutto l’universo debba ruotare intorno al loro ombelico, alle loro passioni, ai loro valori, alle loro idiosincrasie, che “er scinema itagliano” sennò dove li prende i soggetti da farsi finanziare dal Mibac? Solo che Keplero e Copernico hanno detto un’altra cosa, e quindi, appena ce ne accorgiamo, noi minoritari, ecco che parte la litanìa: io sarò sempre in una minoranza, io mi riconoscerò sempre in una minoranza. Ecco, io sono proprio quello stronzo lì: l’elitario, minoritario, saccente che si contorce e soffre intimamente ma in realtà se la gode e non ve lo dirà mai. Probabilmente, nel mio caso, sono in una minoranza diversa da quella in cui si riconosce la maggior parte dei miei “dodici lettori”, ma nella sostanza del ragionamento cambia pochissimo. Soffriamo minoritari. Delle nostre sofferenze, però, l’universo se ne fa puntualmente e velocemente una ragione, ché gli ospedali hanno tutti i posti letto occupati con gente che soffre davvero e se non vi dispiace forse dovremmo preoccuparci di loro e non delle nostre inadeguatezze di posizionamento. Un giorno forse avremo uno stato tutto nostro, una società plasmata sui nostri desideri, proprio come in un episodio di Black Mirror. Può essere che ci farà schifo anche quella, perché con ogni probabilità rimarremo minoritari. Il problema, secondo me, non è tanto l’esserlo, quanto il realizzarlo il prima possibile, prenderne atto e trovarsi un lavoro, dentro e fuori la politica. Costruire. Perché sennò il futuro che è iniziato ieri lo costruiscono gli altri, giorno dopo giorno e poi, ogni tot di anni, alle elezioni.

Fosse per me oggi, queste elezioni sarebbero un problema di semplicissima soluzione; non ci sarebbe nemmeno da discutere sul da farsi, ché la legislatura che si è chiusa era iniziata con un vero e proprio tradimento, con l’offesa ingenerosa portata a una persona seria e per bene (si, Mario Monti, proprio lui) e si potrebbe ristabilire un po’ di senno e di giustizia e – che ne so – se tipo ci mettessimo Calenda, a palazzo Chigi, che almeno è uno che sa di che cosa parla e ha dimostrato di saper fare le cose che van fatte e farle pure per bene. E’ un nome plausibile, non sto facendo endorsment. E’ un esempio. Tanto non succederà, figurati se succede una cosa auspicata da un elitario minoritario anche un po’ stronzo come me.
Abbiamo chiuso una legislatura interessante, proprio in senso entomologico, ad osservarla come un alveare o un ecosistema di insetti e vedere l’effetto che fa; una legislatura che, inziata malaccio, è continuata a fasi alterne, prima con un governo un po’ inane, poi con l’ottimismo della volontà – che era meglio se fosse andati a votare, mi dite – poi col vaffanculo del referendum costituzionale e infine con un ottimo governo centrista, scaltro, opportunista quanto basta e più attivo di quanto ci saremmo aspettati. A proposito, una cosa, un sassolino: io la capisco pure la faccia scura quando gli amici ti tradiscono, caro Enrico Letta: è umano. D’altra parte, per amore di verità, se basta un Gentiloni qualunque per fare le cose che vanno fatte, farle per benino, quasi in sordina, come se fossimo un paese normale, e portare a casa dei risultati di tutto rispetto, beh, forse non eri questo Cavour che pensavi di essere, il che non vuol dire che non lo sarai mai o che non avresti potuto esserlo. Si tratta di capire il quando, il come, il momento e le circostanze. La politica funziona così e se non l’hai capito, dopo tutti questi anni, allora la faccia scura alla cerimonia del campanello, permettimi, non serve a molto. Se l’hai capito, invece, serve a moltissimo, solo che non mi pare sia il tuo caso. Mi sbaglierò.

Vi chiedo scusa per la divagazione e vi ricordo che si, sono sempre io, l’elitario in minoranza, che non crede che si possa uscire dall’Euro, meno che mai in un fine settimana, che se mi dici flat tax io ti dico: parliamone e prova a convincermi, sono quello che pensa che il salario minimo non può essere più alto della media svizzera e che quello universale sia probabilmente irrealizzabile se non succedono almeno altre venticinque cose che porobabilmente non succederanno. Sono quello che crede che se vuoi fare una web tax, la devi far bene e non così tanto per. Ero in minoranza già nel 2009, quando ho preso la tessera e il partito lo gestiva Bersani (sic!) e poi son diventato minoranza di una maggioranza, diciamo dal 2013 in avanti, quando il partito se l’è preso Matteo Renzi e su quindici cose che gli avevo suggerito di fare, in una letterina aperta da questo remoto angolo dell’impero, tre le ha fatte benino, due così così e le altre manco per niente. Le mie priorità erano, mi pare ovvio, minoritarie. Le sue no. Ma vedendo quella tristezza di trasmissione TV, in cui è andato a mostrare l’estratto del suo conto corrente, come se non lo sapesse pure la signora che mi pulisce le scale che esistono i fondi, i conti deposito e gli investimenti immobiliari, ho pensato che avevo ragione io. Matteo, su, ma veramente? E’ questa la legacy che vuoi lasciare? Nel Blob della storia vuoi essere ricordato come quello che andò in televisione a mostrare l’estratto del suo conto corrente? Dai, basta con queste scemenze! C’è un trenta per cento di persone la fuori che si potrebbe addirittura convincere, se fai la cosa migliore che puoi, quella che ti riesce meglio, cioé raccontare il futuro che ti immagini.

D’altra parte, a voler essere onesti e secondo il cliché stantìo di cui sopra, se sono in una configurazione di minoranza costante, non è per colpa di qualcuno in particolare, tanto meno Renzi, ma perché tante delle cose che vorrei per il mio paese non hanno un appeal, né nel mio partito né altrove. Tuttavia mica smetto di lavorarci, anzi, capita pure che ci vinca i congressi, con quelle cose lì. Le scrivo e poi può pure essere che il giorno in cui capiremo che c’è quella cosa chiamata realtà che ci aspetta fuori dalla porta arrivi prima del previsto, che ne sai, all’improvviso. I cambiamenti si fanno per salti quantici, alle volte. Quindi? Quindi…niente.

Così come mi capita in tutte le evenienze della mia esistenza, in tutto quello che faccio e vivo, misuro la distanza fra quello che è il mio mondo ideale e la realtà e tiro una linea. Quella linea si chiama compromesso. Lo faccio sempre. Che vita grama, direte. In realtà, al contrario, è una vita molto piena e interessante, quella di chi lavora per raggiungere compromessi ma non starò qui a provare a convincervi. Per quello che spero e per quello che faccio, per ciò che ho sostenuto e per ciò che auspico (si nota che non ho usato il verbo credere nemmeno una volta?, dai, si nota, vero?) ecco, per tutto ciò, a volte mi capita di essere accusato, in maniera più o meno velata, della qualsiasi: tanto per dirne una, di essere di destra. Accuse a cui, in genere, ho risposto invocando il tormentone di un capo indiano ospite fisso di una trasmissione radiofonica di rai radio 2. Poi ci son quelli che mi dicono le cose tipo: eh, però la stepchild adoption? Che argomentativamente somiglia molto a chiedersi quale handicap a golf siano riusciti a raggiungere i due marò, perché amico caro io almeno una legge per le unioni civili l’ho portata a casa e solo quattro anni fa c’avevo la Binetti e la Bindi da gestire e vivo nel paese in cui la linea d’aria fra il Vaticano e Montecitorio è forse trecento metri. Tu invece non hai ancora fatto un beato stracazzo di niente nella tua vita, quindi facciamo che ne riparliamo quando sarai riuscito a far passare alla mutua le aule per fumatori di cannabis al liceo o la pensione a 50 anni per tutti.

Il 4 Marzo, dicevo, voterò PD, nonostante il PD ci si metta spesso di buzzo buono a minare la mia motivazione di fondo ma, soprattutto, perché mi sembra l’ultimo baluardo, ancorché traballante, a mantenere vivo il legame, quel contatto sano fra il mio paese e la realtà. All’estero abbiamo le preferenze, il ché mi fa sperare che potrebbero esserci su quella lista che voterò dei nomi belli, nomi interessanti, nomi di persone che conosco, con cui ho lavorato in questi anni, con cui ho condiviso la passione e il piacere di vedere delle cose realizzate, le discussioni infinite e i litigi e poi le cose pratiche, i chilometri, i gruppi di whatsapp, le canzoni e i tramonti. Proprio come in uno di quei film italiani finanziati dal Mibac solo che i nostri dialoghi sono scritti molto meglio, anche perché li scriviamo noi e non un minchione di sceneggiatore con la tessera e l’appartamento a S. Lorenzo.

Ora, a parte tutte queste divagazioni e se non mi avete ancora mandato a quel paese per lo sfogo, santi numi, ci fosse un alternativa, il 4 Marzo, io la voterei pure. Il problema è invece che le alternative attuali, implausibili quanto pericolosamente probabili, mi fanno schifo e paura. Non uno schifo antropologico, ché quella scemenza della superiorità spero che un giorno l’archivieremo. Schifo politico, ribrezzo filosofico, come dire, rigetto programmatico. La paura, invece, quella si umanissima e reale, è per il futuro del mio paese. Una delle alternative possibili, per quanto chissà quanto probabile, è una riedizione in chiave tutti-in-galera-tutti-a-casa-ki-ti-paga del sovranismo-nazionalismo-corporativismo-guicciardino che il mio paese ha già conosciuto, più di una volta, anche in periodi piuttosto bui. Il mio paese ci si trova benissimo, in quel milieu, inutile negarcelo. Siamo in tanti ad avercela col mondo e ci crogioliamo spesso in questo esercizio rabbioso del dare agli altri la colpa dei nostri fallimenti. Ecco, io ve lo dico, non vi fidate mai più, in politica ma nemmeno nel resto, di chiunque vi offra una palingenesi. Il futuro non è palingenesi. Pensate davvero che un paese come l’Italia possa essere governato da Di Maio? No, ma veramente fate? Perché io a Di Maio non darei da amministrare nemmeno un condominio, nemmeno una scala di condominio, nemmeno il pianerottolo di una scala di condominio. Lo scrivo senza aver dubitato mai, nemmeno per un minuto, della sua onestà: sono sicuro che non rubi, ma anche questi grandissimi cazzi che non ruba. Il problema è che è scemo, ma scemo forte, il che in politica è peggio dell’essere ladro; voi pensate veramente che cliccando sul sito le leggi da abrogare, poi arrivi lui e quella banda di fessacchiotti che si tira intorno e ve le abrogano tutte? Lo so, lo so, lo so che sono idiozie folcloristiche da campagna elettorale, come Berlusconi che vuole darvi il reddito di dignità: insulsaggini irrealizzabili ma proclamate con la vitalità e lo slancio necessari a intrattenervi per un mesetto. Se ne siete consapevoli, benissimo. Divertitevi pure nella sarabanda di boiate che stanno uscendo in questa campagna elettorale. Crogiolatevi pure, infine, se volete, pensando che si possa essere liberi, nella scelta che farete il 4 Marzo, tipo liberi di non doversi prendere una responsabilità che sia una, di derubricare i calcoli, anche quelli numerici al ruolo di volgarissima utilità, chi se ne fotte dell’utilità se puoi dirti libero. E’ un approccio possibile, non c’è che dire. Continuate pure a trastullarvi con il pensiero che si possa rimanere, anche a questo giro, così liberamente liberi e uguali nella libertà di non doversi sobbarcare il peso della realtà. Tanto, un amico da tradire a cui dare la colpa lo si troverà sempre, dato che lo si è sempre trovato negli ultimi trent’anni, solo che loro sono stati tutti furbi ed eleganti e la faccia scura alla cerimonia del campanello non l’hanno fatta. Le apparenze, sapete, ci piaceva salvarle, prima che arrivassero i barbari.

Vada come vada, la realtà, il 5 Marzo, busserà alla porta. Speriamo bene di non dover consegnare il paese ai suoi aguzzini. Potrebbe succedere. Potrei sbagliarmi.

Ciò che vorrei

Questo è il primo post politico che scrivo nel 2018 e probabilmente sarà l’ultimo per un po’.
Alle elezioni italiane mancano due mesi. Ne sono passati quasi quattro da quelle tedesche e otto da quelle francesi. In Germania non c’è ancora un accordo di coalizione e il governo continua ad occuparsi di affari correnti e poco più. In Francia c’è un governo stabile e una maggioranza parlamentare solida. In entrambi i paesi, il rischio che il governo finisse nelle mani di un’estrema destra populista e antieuropeista è stato scongiurato.
In Italia, dopo il 4 Marzo, nella migliore delle ipotesi (almeno, migliore dal mio punto di vista, cosiderate le alternative) si arriverà con uno scenario tanto instabile quanto usuale: lo stallo. A meno di sorprese significative, infatti, è difficile che una maggioranza di centrosinistra arrivi al governo. Certo, potrebbe arrivarci una maggioranza di centrodestra che, dati i bizantinismi di una legge elettorale, anche quella figlia di uno stallo sostanziale, registrerebbe una resurrezione de facto. Ciò che spero riusciremo a scampare è un’alleanza fra lega e m5s. Non sono sicuro che succederà. Vedremo.

Per noi italiani all’estero il processo si chiuderà un po’ prima, intorno al 20 di febbraio, cosa che personalmente vivo al momento come un sollievo. Sono obbligato da un impegno di militanza partitica a essere attivo in una campagna elettorale in cui – ce lo eravamo detti ed è successo – molti nodi stanno arrivando al pettine; i nodi sono il risultato di tendenze e fenomeni che vanno molto al di là dell’ambito di questa campagna elettorale e, soprattutto, molto al di là dei temi su cui tipicamente ci confrontiamo da italiani all’estero nelle campagne elettorali. A volte, la frustrazione di assistere a un dibattito su cose per cui provo un interesse molto limitato, ma che per forza di cose sono in agenda, a raggiunge livelli molto prossimi al tedìo totale.

Ciò che è successo negli ultimi anni, in Italia e non solo, è il risultato di tendenze e fenomeni epocali che le democrazie europee hanno affrontato con diversi approcci e diversi risultati. La democrazia italiana, con tutti i suoi problemi e con tutte le sue inadeguatezze, prima fra tutte una sostanziale instabilità cronica, è riuscita a tenere e persino l’ultima legislatura, considerate le condizioni in cui è nata, la sua composizione e la qualità e competenza dei suoi membri, è riuscita a scavallare uno dei momenti più difficili degli ultimi cinquant’anni, occupando quasi la metà di un decennio di crisi economica profondissima e assistendo e accompagnando, si spera definitivamente, all’uscita da quella crisi. Questa cosa, a prescindere da come la pensiate, da quale partito voterete il 4 Marzo, deve essere un motivo di speranza per tutti. Da qualche giorno (oramai settimana) sono disponibili le ultime rilevazioni dell’ISTAT sull’andamento dell’economia italiana e sono dati incoraggianti, due fra tutti: un aumento delle esportazioni rispetto all’anno precedente e l’aumento della componente di PIL che riguarda gli investimenti. Significa che le imprese italiane stanno ricominciando a lavorare e ad avere fiducia nel futuro. Una democrazia matura, chiunque governi, dovrebbe a questo punto domandarsi cosa fare per accompagnare questa tendenza, per generare i circoli virtuosi che aiutino a governarla, per far si che il futuro prossimo non ci colga di nuovo impreparati, come è successo a partire dal 2007/2008. Sta succedendo?

Onestamente, scrivo questa cosa scevro da qualunque inlfuenza collegata alla mia appartenenza, qualcosa si è provato a fare. Mi sbilancio, scrivendo che probabilmente gli storici riconosceranno ad alcuni membri del governo uscente il merito sostanziale di aver fatto cose sensate e giuste per il futuro del paese. Il primo che mi viene in mente non è nemmeno nel mio partito, si chiama Carlo Calenda e grazie a quello che ha fatto negli ultimi due anni, l’Italia potrebbe avere dei vantaggi competitivi non trascurabili. Basta quello che si è fatto? No, non basta, nemmeno lontanamente. Soprattutto non basta a colmare un divario che si è venuto a formare negli ultimi dieci anni riguardo alle competenze e alle conoscenze necessarie per governare il cambiamento che dovremo affrontare, che ci piaccia o no.

Il problema della competenza, della formazione e dello sviluppo delle classi dirigenti ma anche della sterminata classe di persone che dovrà gestire anche a livelli più bassi di responsabilità il cambiamento, sia nel pubblico che nel privato, è e sarà la sfida fondamentale dei prossimi vent’anni. Su questo stiamo ancora incredibilmente indietro; nel pubblico, nella politica, così come nel settore privato. Se dovessi indicare qual è stato il fallimento politico più significativo di Matteo Renzi, diciamo dalla fine del 2013 a oggi, credo che sarebbe proprio quello: essere stato incapace di mantenere la forza propulsiva di quella proposta, che ai tempi era – che piaccia o no – rivoluzionaria, di riformare l’idea dell’accesso alla responsabilità e della contendibilità delle posizioni di influenza. Quella forza propulsiva doveva essere sostenuta da una valorizzazione costante e quasi religiosa della competenza e del merito come condizioni necessarie. E’ stato così a tratti, in casi specifici, ma non abbastanza da garantire una massa critica che potesse influenzare, finalmente, quel cambiamento culturale di cui l’Italia ha bisogno.

Un paio di settimane fa ero in viaggio in Italia e ho ascoltato alla radio l’intervista a uno degli studenti leader della protesta contro le misure legislative per l’alternanza fra scuola e lavoro. A prescindere da come la si pensi su quelle misure e su quel progetto di cambiamento (io sono moderatamente critico, riguardo a tutto il pacchetto, ma ne condivido la ratio al 100%), a un certo punto, ascoltando quel ragazzo che aveva probabilmente meno della metà dei miei anni, mi è parso di trovarmi all’uscita della cabina di Dr Who, catapultato indietro di una quarantina d’anni. Questa sensazione di spaesamento temporale mi aggredisce spesso, quando torno in Italia. Anche questo credo sia un sintomo dell’inadeguatezza della classe dirigente di questo paese, l’incapacità di comunicare una visione che evochi l’interesse, l’attenzione, in una maniera abbastanza potente da catalizzare le energie necessarie a cambiare. Mancando questa visione, è fin troppo facile adagiarsi nella bambagia del già visto, del già sentito, di modelli vecchi e superati.

Ciò che mi chiedo, che mi sono chiesto negli ultimi dieci mesi, è se questo sia l’unico problema del mio paese, se risolto questo, quando e se lo risolveremo, andrà poi tutto a posto. Non lo so. Non credo.

Una delle frustrazioni più dolorose, facendo politica, consiste nel realizzare che i tempi che stiamo vivendo richiederebbero la capacità e la disposizione mentale per sviscerare i problemi nella loro complessità e analizzarli da diversi punti di vista prima di elaborare ricette. Invece, la schiavitù all’ideologia (che in fondo, pensateci, è solo un sintomo della pigrizia intellettuale) ci rende paradossalmente sempre più incapaci all’elaborazione e alla dialettica e sempre più proni a una discordia che scivola facilmente nel disprezzo (che invece è l’antitesi di una dialettica sana). Se disprezzo il mio interlocutore, il massimo delle energie che posso dedicare a una conversazione con lui riguarderà gli aspetti tattici e strategici per fregarlo, per fargli fare la figura del fesso, piuttosto che a interessarmi al suo punto di vista, per confutarlo o arricchire il mio ed elaborare una soluzione. Un dialogo basato sul disprezzo reciproco è, di conseguenza, nella migliore delle ipotesi uno spreco di energia. Di sicuro non quello di cui questi tempi complicati hanno bisogno.

E’ mia impressione che questa cosa dell’odio puro in politica emerga in Italia più spesso che altrove, anche se altrove è emersa con veemenza maggiore, diciamo negli ultimi tre anni, sfociando poi in Brexit, in Trump, in AFD al 14% in Le Pen al ballottagio presidenziale. In Italia, però , mi pare ci sia un rumore di fondo più diffuso, una violenza nel dibattito più marcata e trasversale, più definita e difficile da controllare. Non sono mai riuscito a capire se questa mia ipotesi sia davvero verificata e, nel caso lo sia, quali ne siano le ragioni. Certo, il successo di cui sembrano godere i toni e gli argomenti del M5S e di Salvini sarebbero già un indizio interessante. Certo, è molto difficile entrare in un bar in Germania sentire qualcuno dire parolacce contro un politico qualsiasi (a me non è mai successo, in Italia invece di continuo). Io conservo questa teoria da alcuni anni, e cioé che il fascismo sia stato per l’Italia moderna quello che il big bang è stato per l’Universo, un esplosione primordiale che ha lasciato nella società italiana un rumore di fondo ancora percepibile.

La prossima campagna elettorale non sarà immune da questo odio, il che è un motivo aggiuntivo per salutarne la fine come un sollievo. Nel frattempo, credo sia necessario che gli uomini di buona volontà inizino a riflettere sereni sul da farsi.

Lettera a Tim – Siamo Fatti Così

Caro Tim,
è un po’ che non ti vedo e mi mancano le nostre chiacchierate. Ti ricordi quei pomeriggi (pomeriggi comparativi, li chiamavamo) a discettare davanti a una birra (a volte anche due, tre, quattro) di quanto amassimo i nostri rispettivi paesi d’origine, dell’insofferenza che nutriamo per i loro difetti endemici; ti ricordi – non è una domanda, lo so che te ne ricordi – di quelle analisi da maxweber-denoantri sul dualismo fra etica dei principi e etica della responsabilità. L’ultima volta è successo a novembre, non faceva così freddo e il nostro Stammtisch si era trasformato in un piccolo think tank di legno noce.
In Italia era, come al solito, un periodo di “dibattito intenso” con toni, come al solito, da melodramma, a voler essere generosi, o da sceneggiata napoletana, con tutto il suo corredo di iperboli insensate e climax illogici. Poi è andata come è andata, tu te ne sei tornato a Colonia e mi farebbe tanto piacere rivederti, e probabilmente ti verrò a trovare presto. Ci risiamo, caro Tim. Da questo lato delle Alpi, mi tocca osservare di nuovo un dibattito immaturo, tutto ideologico, in cui nessuna delle parti sembra fare uno sforzo minimo per comprendere le ragioni altrui. Il modo peggiore di affrontare i problemi, figuriamoci risolverli, l’unico modo che i miei connazionali sembrano conoscere. Quello che mi irrita, e ne converrai, è che ci avete lasciati un po’ soli, a gestire una delle crisi epocali più grandi degli ultmi mille anni. Quanto ci avrebbe fatto bene il vostro aiuto, l’aiuto della Germania e della Francia, soprattutto, e non parlo di fondi europei o supporto logistico, no. Parlo proprio e unicamente di dialogo. Quanto ci avrebbe fatto bene il vostro sostegno, un confronto serio e serrato, severo e aperto su soluzioni sensate e praticabili. Invece poco, anzi niente, siamo onesti. Come sempre nelle nostre chiacchierate, anche in questa forma epistolare ed astemia (non ho birre in frigo mentre ti scrivo questa letterina), provo a raccontarti quello che è successo. Il parlamento italiano si avvia alla fine della legislatura, una legislatura che ha portato a casa risultati di gran lunga superiori alle sue potenzialità, visti i presupposti con cui era nata: il solito, sgangherato sistema italiano senza maggioranze e accountability, la solita masnada guicciardiniana di interessi particulari e corporativismi anacronistici. Molto probabilmente, le prossime elezioni le vincerà il M5S: questo fatto di per se – oltre a farmi venire una gran voglia di prendere il passaporto tedesco – è uno di quegli elementi che i politologi chiamano enabling factors for the agenda setting. La smania di recuperare terreno e consenso contro il dilagare di quell’insalata informe di populismo giustizialista e Jean Jacques Rousseau fatto di mescalina, unita alla difficolta oggettiva di affrontare una catastrofe umanitaria che per sua natura, logistica prima che politica (c’è di mezzo il mare!), è l’ultimo dei problemi che un governo qualsiasi che tenesse alla sua sopravvivenza avrebbe voglia di affrontare. Eppure deve farlo. E lo sta facendo.
E’ iinteressante e singolare, avendo la possibilità (il privilegio?) di astrarre dalle scemenze iperboliche del dibattito quotidiano, osservare come in realtà il tentativo del governo italiano di affrontare l’emergenza sia tutt’altro che di facciata. Come sai, stiamo parlando di un governo quasi provvisorio, con un’agenda tutto sommato centrista, che prova a far quadrare i conti prima delle revisioni bruxellesi e a tirare la volata alla prossima campagna elettorale, che sarà un altro enabling factor, stavolta per il mal di fegato di chiunque speri in un approccio logico e razionale nella discussione dei problemi. Questo governo ha tentato, finora con scarsi risultati, un approccio duplice: da un lato ha usato la carta della promozione dell’integrazione attraverso una riforma del sistema di ottenimento della cittadinanza, in un senso più aperto e moderno: l’ha definito Ius Soli, con una forzatura linguistica che non so quanto gli sia convenuta, a conti fatti (la legge non è ancora passata e sono scettico che passi prima della fine della legislatura), evidenziandone poi le caratteristiche di equilibrio, e così siamo arrivati allo Ius Soli Temperato. Ho letto la legge, che è sensata e fatta bene, e paradossalmente ho iniziato a nutrire dubbi fortissimi sulle sue chance di successo, per motivi che poi magari ti spiego e, anche se finora pare che quei dubbi fossero fondati, spero tanto di sbagliarmi. Dall’altro lato, il governo ha provato a ripensare il sistema di controllo e contrasto del traffico di disperati e degli sbarchi, e lo ha fatto sulla base di alcune evidenze. La prima è che nessuno dei sistemi provati finora, qualunque sia stato il nome che gli sia stato affibiato, sembra aver funzionato al 100%. Migliaia di poveri disgraziati hanno continuato a morire nel mediterraneo. La seconda è che a un certo punto, come ti dicevo, l’Italia si è sentita abbandonata. Nel frattempo la pressione interna, l’insieme degli enabling factors che dettano l’agenda, è rimasta un livello altissimo, in un paese che solo da alcuni mesi sta registrando segnali deboli di uscita da una crisi economica che è durata dieci anni, facendo danni che saranno recuperabili, nella migliore delle ipotesi, solo nel medio periodo; la speranza per le giovani generazioni di avere un futuro, con una disoccupazione giovanile a livelli venezuelani, è diventata una mera formula giornalistica. In questo contesto, l’immigrazione, con un sistema di integrazione e accoglienza che, a voler essere eufemistici, non ha funzionato, con le sue cifre drammatiche, è diventata l’elemento di disturbo più visibile, il target più palese e identificabile del malcontento diffuso. I movimenti populisti flirtano da anni con la rabbia e l’insoddisfazione e lo fanno, ovviamente e comprensibilmente, in vista della campagna elettorale che è alle porte (in Italia, c’è sempre una campagna elettorale alle porte). L’agenda del governo ne ha risentito; anche nella sua essenza di governo traghettatore verso nuove elezioni, e, ancora una volta, considerate le condizioni al contorno, il modo in cui questo governo è nato, le constituencies e gli equilibri, ha provato a implementare una risposta alla crisi migratoria che – te lo dico onestamente, senza nessuno spirito di parte – difficilmente sarebbe potuta essere diversa e, di nuovo onestamente, non so se migliore. Il ministro degli interni si è profilato, per tutta una serie di ragioni, anche di ambizioni personali, come decisionista e severo, tanto da meritarsi apprezzamenti a destra e l’appellativo di “sceriffo”. Quello che in realtà sta provando a implementare è un sistema di controllo che stabilisca dei disincentivi alle partenze, almeno nel medio termine. Qui è spiegato bene, incluso il fatto che un sistema così concepito, corre il rischio di avere, nel breve periodo, dei costi umanitari. Ciò rende questa strategia discutibile, e quando scrivo discutibile non intendo sbagliata; semplicemente dico che andrebbe discussa in una maniera più approfondita e trasparente. Se azioni e strategie di contorno per contenere quei costi umanitari esistono, al momento non è dato di conoscerle, non se ne è discusso abbastanza. Come ogni crisi umanitaria anche questa comporta il porsi di fronte a dilemmi etici, e quei dilemmi etici andrebbero discussi in un forum allargato a tutte le parti in causa, con una valutazione oggettiva dei pro e dei contra, dei numeri e delle evidenze e poi con l’implementazione, quella si severa e rigorosa, delle decisioni prese. Invece, ancora una volta, in Italia, tutto diventa una continua mistificazione degli argomenti in una polemica infinita. Come ti dicevo a Novembre, noi siamo così: prendiamo Max Weber, lo infiliamo nel frullatore e coi coriandoli che ne risultano imbastiamo un teatrino di arroganza e superficialità. Prendi l’esempio delle ONG che hanno deciso di non firmare il codice di comportamento implementato dal ministero, prendi l’esempio di Medici Senza Frontiere, che ha giustificato la sua decisione di non firmare con una lunga lettera, anche questa discutibile, e quando scrivo discutibile non intendo sbagliata. Ora, a parte che quel codice di condotta non è piovuto dal cielo, paracadutato da un deus ex machina con la felpa di Salvini, ma è stato discusso ed approvato da tutti i ministri dell’interno dell’unione e dalla commissione europea, forse, in un’ottica di dialogo, sarebbe stato meglio discuterne un po’ più a lungo, pesare gli argomenti e validare le obiezioni, legittime quanto discutibili, di chi non ha voluto firmare. La scarna presa d’atto con implicita minaccia da parte del Ministero degli Interni non sembra andare in quella direzione. Però, d’altra parte, chi non ha voluto firmare si è preso di fatto una responsabilità grande, e lo ha fatto sicuramente sulla base delle sue proprie valutazioni riguardo ai dilemmi etici che quella scelta comportava, tuttavia avrebbe potuto quantomeno provare a discutere le ragioni di chi invece ha fatto la scelta opposta, a meno di ritenere che Save The Children e MOAS operino con un’approccio meno etico di Medici Senza Frontiere. Invece, niente. Il solito derby mediatico in cui il dualismo noi-loro e la reductio-ad-Salvinum occupano qualsiasi interstizio disponibile a un dialogo costruttivo. Vedi, caro Tim, io credo che il problema fondamentale sia questa aberrazione, perché conviene troppo a tutti, in Italia, oggi. Conviene alla destra, perché grazie ad essa è riuscita a guadagnarsi una visibilità che aveva perso ampiamente, in quello che in troppi avevano battezzato troppo frettolosamente come il cupio dissolvi berlusconiano; conviene alla sinstra, perché può mascherare con generiche affermazioni di principio la sua totale inettitudine e incapacità a confrontarsi con i problemi, figuriamoci a risolverli; conviene al M5S, che rimarrà alla finestra a strumentalizzare qualunque cosa gli dia un’addizionale di ritorno elettorale; conviene agli scafisti, che fin quando la situazione sarà incasinata e senza controllo, potranno approfittare di tutte le zone d’ombra del sistema, avvantaggiandosi della buona fede e dell’estremismo umanitario di alcune ONG; conviene in minima parte anche al governo, che può mostrare un atteggiamento risoluto ed eventualmente dare la colpa ad altri, se le cose non dovessero funzionare. Gli unici a cui non conviene, sono quei poveri disgraziati che si mettono in mare con la speranza di trovare una nuova vita dall’altra parte del canale di Sicilia. Per la stragrande maggioranza, diciamocelo, non vale il possesso dei requisiti per definirsi rifugiati: sono migranti, persone che vorrebbero trovare un lavoro e vivere in Europa. A loro, non conviene il nostro essere incapaci di trovare delle soluzioni sensate ed accettabili. Non gli conviene, ai 100mila che sono arrivati in Italia nel 2017, dato che – anche grazie alla nostra incapacità – non sappiamo dove mandarli, come insegnare loro le lingue dei paesi in cui andranno a vivere, dove e come potrebbero lavorare, con quali strumenti di welfare sostenerli, come aiutarli a integrarsi nelle nostre società, a contribuire perché crescano, come fare per garantire a loro e a tutti sicurezza e serenità. Non sappiamo quante persone accogliere ogni anno e se un limite ci debba essere. Non sappiamo come “aiutarli a casa loro”, come coordinare gli investimenti e gli sforzi diplomatici, politici e militari perché l’Africa esca dal sottosviluppo. Non sappiamo quali leve usare con l’Europa, perché la nostra peculiarità, geografica innanzitutto, venga compresa ed accettata. Non lo sappiamo. Porsi queste domande, di fronte alla prospettiva che nel 2050 l’Africa potrebbe raggiungere i due miliardi e mezzo di abitanti, preferiamo evitarlo. E’ molto più comodo darsi più o meno a vicenda del fascista o del buonista, ripetendo formule stracche e slogan scemi. In realtà è una strategia: vogliamo estinguerci, morendo di noia a furia di dibattiti su cosa sia di destra e cosa di sinistra, così che tutto diventi il problema di qualcun altro. Siamo fatti così.

Sventurata la terra ovvero storia di Andreas

Questa è la storia di Andreas. Probabilmente, chi avrà la pazienza di leggerla arrivando fino alla fine, sarà tentato di prendere una posizione, di fare il tifo per una delle parti in causa, perché questa è anche una storia di dilemmi e parti contrapposte.

Mi piacerebbe raccontarla in modo da prevenire che ciò succeda, ma non garantisco nulla.

Andreas è un omaccione corpulento e dalle ciglia folte. Ha lo sguardo intelligente del nerdone di successo e infatti ha un curriculum di tutto rispetto.

Nel tempo libero pratica il ju-jitsu, di cui è cintura nera e parla quattro lingue. Nutre simpatie ambientaliste e ha partecipato attivamente alla promozione della cultura del suo paese nel mondo. E’ rimasto vedovo giovane e ha una figlia che, quando questa storia comincia, nel 2009, è una ragazzina.
Il 2009 è l’anno in cui Andreas prende la decisione che gli cambierà la vita, almeno, per quello che ne sappiamo, finora.
Nel 2009, Andreas lavora in America, la terra che lo ha adottato,  in cui ha studiato, completando il suo dottorato in teoria monetaria, e in cui ha vissuto per una ventina d’anni, lavorando al fondo monetario internazionale.
Ad Ottobre del 2009, nel suo paese d’origine al di là dell’oceano, ci sono le elezioni generali. Il primo ministro uscente, politico di centro-destra con una carriera fin lì abbastanza brillante, in chiusura di campagna elettorale, presenta i risultati del suo governo. E’ un momento importante. Il governo uscente ha supervisionato la gestione di uno degli eventi sportivi più importanti a livello mondiale e tutto ciò che ne è derivato negli anni successivi.
Comprensibilmente, dato che si è in campagna elettorale, i risultati riportati dal governo sono rosei e brillanti.
In particolare un dato,sciorinato con enfasi anche per tranquillizzare i burocrati europei a Bruxelles, il rapporto fra deficit e pil: un 6% non brillante, ma nemmeno disastroso. Qualcosa su cui il governo uscente chiede la fiducia per poterci lavorare su per i quattro anni a venire.
Si svolgono le elezioni e il partito di cui fa parte la maggioranza del governo in carica le perde, in maniera abbastanza disastrosa.
Con le urne appena chiuse e i risultati elettorali freschi di conferma, succede però una cosa su cui in molti hanno speculato, negli anni, ma di cui probabilmente nessuno conoscerà mai il reale motivo: i numeri, quelli che il primo ministro aveva presentato al pubblico solo qualche giorno prima, vengono ritoccati al rialzo e non di poco. D’improvviso il rapporto fra deficit e pil non è più il non brillante ma nemmeno disastroso 6%, ma qualcosa che si avvicina al 13%. Scoppia una bagarre. I mercati reagiscono in tempo reale e partono le vendite dei titoli di stato, lo spread si impenna a valori mai registrati nei decenni precendenti. I cellulari dei funzionari di tutte le istituzioni europee cominciano a squillare alle ore più strane, perché nessuno ci capisce molto.
Andreas, a questo punto, prende la decisione che gli cambierà la vita: si iscrive al concorso pubblico per diventare capo dell’istituto di statistica del suo paese d’origine. Vince il concorso, battendo una concorrenza di tutto rispetto, e diventa il capo dell’Elstat, che è in Grecia quello che l’Istat è in Italia.

 Andreas lascia il suo lavoro importante e ben pagato a Washington e torna nel suo paese d’origine. Il movente che lo spinge a fare questa scelta diventa oggetto di speculazione. Probabilmente non lo conosceremo mai. D’altra parte, chi di noi può in tutta onestà identificare un motivo univoco per cui ha compiuto una delle scelte più importanti della sua vita? Dentro ci può stare tutto, dalla convinzione di potere e volere fare qualcosa di buono per il posto dove sei nato, a un pò di sana e legittima ambizione personale, a un ragionevole impulso a tuffarsi in una sfida difficile ed appassionante.

Quale che sia stata la combinazione di questi ed altri fattori, fatto sta che Andreas si stabilisce ad Atene e decide, lui che è uomo di numeri, di controllare tutti i libri, di ispezionare tutti i numeri in maniera pedissequa e trasparente. I suoi nuovi colleghi non gli fanno trovare certo un tappeto rosso al suo arrivo. Andreas, infatti, capisce quasi immediatamente di essere benvenuto come la sabbia fra le lenzuola in una notte torrida di Agosto. Non si lascia scoraggiare, nemmeno quando, durante una riunione con il suo staff, un suo impiegato gli sventola sotto il naso una sua mail – hackerata, come dimostrerà un tribunale qualche anno dopo – rinfacciandogliene il contenuto.

Andreas, realizzato il suo totale isolamento, adotta una strategia molto comune in questi casi, né più né meno di quella che adottarono Falcone e Borsellino a Palermo quando istruirono il maxi processo alla mafia: si chiude a tenuta stagna e decide di lavorare in autonomia per prevenire il rischio di manipolazioni, edulcorazioni e falsificazioni. Controlla tutti i conti, li verifica secondo gli standard internazionali e realizza ben presto che le magagne e i trucchetti di cui sono disseminati i report sui conti pubblici greci sono tali che persino le stime più pessimistiche riportate dopo le elezioni sono sbagliate per difetto. A novembre del 2010 il rapporto deficit/pil viene ritoccato di nuovo e si attesta intorno al 16%.
Magari alla maggior parte di quelli che hanno letto questa storia fin qui, questi numeri, queste percentuali, non dicono nulla. Posso capirlo. Basti sapere che se il 6% è un risultato non brillante, anzi piuttosto brutto, 16% è una catastrofe. E’ la differenza fra avere le febbre alta per l’influenza e contrarre la mononucleosi su un’isola deserta e, cosa importantissima per capire il senso di questa storia, è la differenza fra una lettera di richiamo dell’unione europea e l’implementazione a pieno regime di quelle politiche di Austerity che chiunque ha sentito nominare almeno una volta negli ultimi anni.
Ora, proviamo a immaginare il livello di pressione politica che subirebbe un ipotetico capo dell’Istat, in Italia, che avesse deciso di controllare personalmente tutti i numeri dei conti pubblici e si assumesse personalmente la responsabilità di pubblicarli, senza averli prima fatti “vidimare” dal governo, dal partito al potere, perché animato dal sospetto di potenziali manipolazioni. Ecco. In Grecia, nel 2010, è molto peggio.
Andreas viene accusato di essere un traditore. Gli stessi politici, gli stessi partiti, le stesse persone responsabili di tutte le magagne e di tutti i trucchetti che Andreas ha scoperto, iniziano ad accusarlo di aver venduto gli interessi nazionali ai poteri forti. La cosa più leggera che la stampa greca scrive di lui è che sarebbe responsabile del “genocidio dei suoi cittadini”. Il quotidiano del partito di Tsipras gli dà, letteralmente, del “boia”. Le denunce in tribunale si moltiplicano. La magistratura, quella stessa magistratura che poco o niente ha fatto contro chi ha truccato i conti greci per decenni, apre inchieste contro Andreas. Viene assolto più volte, e più volte vengono riaperte altre inchieste e altri processi. Tsipras fa apertamente campagna contro L’Elsat prima delle ultime elezioni, sostenendo che l’agenzia statistica nazionale si è macchiata del reato di aver gonfiato scientemente i dati di deficit dal 2009.
Diverse agenzie internazionali indipendenti, però, fra cui Eurostat, confermano la correttezza del lavoro di Andreas. Diverse agenzie di difesa dei diritti di libertà di ricerca scientifica denunciano i procedimenti contro Andreas come violazioni dei diritti umani. Gli editor di “The economist” fanno lo stesso. La stampa europea (quella italiana un po’ meno) si occupa del caso ed evidenzia diverse incongruenze nei procedimenti a carico di Andreas.
L’ultima assoluzione dalle accuse che gli sono state mosse risale a dicembre 2016 e l’ultima condanna ad agosto del 2017.
Nel frattempo Andreas ha lasciato il suo posto all’Elstat e se ne è tornato in America dove, al momento, fa fatica a trovare un nuovo lavoro, dati i suoi carichi pendenti.

Arrivati a questo punto, preferirei, come ho scritto all’inizio che chi ha letto questa storia non si schierasse, ma provasse semplicemente a riflettere. Io ci ho provato e, al di là del fatto che – alla fine – abbia deciso di schierarmi io stesso, credo che la straordinarietà di questa storia risieda nel suo avere una sua completezza di elementi, una sua compiuta totalità. Io la trovo formidabile e shakespeariana, quasi cinematografica. C’è dentro tutto: l’eroe tragico, l’esilio, il tradimento, le grette mistificazioni di una classe politica incompetente, il conservatorismo di chi non vuole vedere la verità, l’ipocrisia dei finti salvatori della patria, il complotto, lo squilibrio dei poteri, la testardaggine, l’insofferenza per i fatti e per le evidenze e le fascinazioni pericolose per le narrazioni facilil, il populismo, l’opportunismo da campagna elettorale, la solitudine, la paura, l’idea del capro espiatorio, il nemo propheta in patria…

Ci sono tutti questi elementi che mi ci hanno fatto interessare a un livello prossimo all’ossessione e, comunque, mi pareva una buona storia per ricominciare il cammino di questo blog.

Forse è una storia che contiene pure una morale (si, forse mi sto schierando, lo ammetto): non importa con quali conseguenze, ma dare agli altri la colpa dei nostri fallimenti, rimane la via più facile.
Io, nel frattempo, auguro sia a Andreas Georgiou che a tutta la Grecia un futuro un po’ più sereno.

About – Non c’è ritorno che non sia eterno

Tendenzialmente piccolo e occasionalmente ispirato, vivo in un paesotto vicino Norimberga il cui nome, tradotto in italiano, può significare “cammina”, ma anche “corri”. Mi piace molto quest’ambiguità di significato, che per puro caso è identica a quella del mio dialetto (perché anche giù da noi cammina può significare corri).  Trovo sempre curioso, in una maniera seducente, quando il tedesco – lingua meravigliosa che ho avuto la fortuna di imparare un pochino – cede un po’ della sua accuratezza chirurgica e offre uno spiraglio di approssimazione, concedendosi addirittura un imperativo che pare lasciare una scelta: Cammina! Oppure corri, se vuoi!

In cammino o in corsa ho imparato molte cose. Credo non esista un insegnamento più laico e compiuto, sul senso della vita, dell’invito a se stessi e agli altri ad esercitare incessantemente la propria curiosità, mentre si attraversa quest’avventura.

Questo blog rinasce.

Scrivo rinasce (e non nasce) perché era già qui, anche se in una forma leggermente diversa; a un certo punto, per motivi che non credo di ricordare con estrema precisione, non mi pareva più così sensato continuare a tenerlo.

Ora ho deciso di riaprirlo, stavolta per una serie di motivi molto personali di cui preferisco non scrivere.
Credo proprio che su questo blog non leggerete mai dei fatti miei, in un senso più intimo e individuale, perché, oltre a trovarli irrilevanti, nello schema più grande delle cose, sono sicuro che tutto ciò di personale o intimo io possa raccontare finirebbe per annoiare moltissimo moltissimi e interessare molto a molto pochi, ma di quei molto pochi preferisco prendermi cura individualmente e fuori di qui.

Questo blog prova a raccontare e offrire qualche suggestione e prospettiva sulle cose su cui, nel tempo definito che ho a disposizione, riverso un interesse discontinuo e volubile o, a voler essere autoindulgenti, una passione ecclettica e oziosa.
Su quelle cose e sui quegli interessi provo, con mezzi limitatissimi, a riflettere e ragionare.

Grazie per essere passati di qui.
A presto,
itsoh

PS: il sottotitolo è una citazione di Sigmund Freud. Una delle possibili traduzioni in italiano è: “Parole e magia erano in origine la stessa cosa. “