When Fancy Clear Takes In All Beauty With an Easy Span

Esattamente 30 anni fa, a quest’ora, mi sedevo di fronte a una signora graziosa ed elegante.
Me la ricordo benissimo, ancora oggi: occhi cerulei, capelli biondo cinerino aggiustati in una messa in piega curata, incarnato appena velato da un anticipo di abbronzatura. Poco più di cinquant’anni, portati con fresca e fine compostezza, il filo di perle, la camicetta bianca, i sandali col tacco medio, un accento siciliano molto forte. Tutte queste cose me le ricordo ancora oggi, nitide e indelebili.

Quello che ho rimosso completamente sono i dettagli di ciò che le raccontai. Di sicuro aveva a che fare coi poeti romantici inglesi: la nostra conversazione iniziò da lì. Lei iniziò prendendomi in giro, mi disse: hai gli occhi chiari e i capelli lunghi (l’ho già detto che fanno 30 anni proprio oggi, no?), potresti impersonare un poeta romantico inglese in una recita. Me lo disse in inglese, e per magia il suo accento scomparve. Cominciammo da lì: da Keats e Shelley, forse Byron. Sicuramente devo aver parlato anche di Byron. Di sicuro avevo una strategia per conquistarla: dovevo unire i punti fra gli improbabili paralleli che credevo di avere scoperto, nella mia goffa emulazione di critico letterario con l’accento cockney di Battipaglia. Dovevo arrivare in un modo o nell’altro a Yeats e Wilde. Perché pensavo che oramai dovessero saperlo tutti: Keats and Yeats are on your side, while Wilde is on the mine.

Lei: What do you like the most about Yeats?
Io: Well, I think his mystical approach to reality.
Lei: Ohhh, I see.
Questa scambio me lo ricordo. Il resto no.
Se non avessimo tutte le fesserie che ci raccontiamo sui riti di passaggio, imbastendo per le nostre vite noiosissime versioni in sedicesimi di romanzi di formazione, come potremmo mai accettare di buon grado la banalità della vita? La vita, più spesso che no, è banale. Il tedìo è spesso la sua sublime cifra distintiva.
La maturità, il racconto nostalgico dell’esame di Stato è un genere stile ombelicalista nostalgico e il mio non fa differenza. La mia maturità, nel senso di esame di Stato, più che un rito di passaggio fu un cartellino timbrato. Né il primo né l’ultimo di una lunga serie di rospi da inghiottire, che l’esistenza era pronta a servirmi, di lì in avanti, con mise en place differenti a seconda delle occasioni.
Il mio esame di maturità , nell’anno domini 1990, si consumò così, con quel bizzarro tentativo di affabulazione di una bella signora matura, con quel grottesco flirt preterintenzionale. Lei fu gentile, oltremodo gentile: non mi interruppe se non con incoraggianti very well e of course.
In meno di mezz’ora era tutto finito. Era il sette luglio del 1990, le due Germanie stavano finalizzando il trattato di riunificazione. Un mese prima, più o meno, avevamo visto in comitiva l’atto finale della trilogia di Ritorno al Futuro, il ché aveva sancito  ça va sans dire, la fine degli anni ottanta e della nostra adolescenza in un colpo solo, e un altro film, Heathers, mi aveva fatto scintillare l’amore per Winona Ryder. Sempre un mese prima, più o meno, avevo preso parte al primo referendum abrogativo della storia della repubblica che non avrebbe raggiunto il quorum. I democristiani governavano il mio paesello da quarant’anni e i valvassori del partito socialista facevano i guappi e gli smargiassi per la strada. I paninari, che Dio li stramaledica in eterno, finalmente erano morti e noi sparuti pasdaran della nostra sciancata rivoluzione new wave, vivemmo quei mesi d’estate italiana con un senso di esaltazione. Il Napoli aveva appena vinto il suo secondo scudetto e quello stesso giorno in cui io provavo improbabili tattiche di seduzione parlando inglese a quella distinta signora siciliana, un siciliano doc avrebbe piantato un palo nel cuore degli inglesi, vincendo la classifica dei cannonieri in quello stranissimo mundial italiano. I quaderni ce li ho ancora, da qualche parte , a casa dei miei. L’antologia di letteratura era inzeppata di ritagli di “La Repubblica” e di “Cuore”. Gli articoli di Beneamino Placido, Alberto Ronchey, Gianni Brera, Norberto Bobbio, Stefano Rodotà, Alex Langer, Luigi Manconi e una lettera di Wolfgang Amadeus Mozart a suo padre Leopold, quella in cui gli racconta di pensare ogni giorno alla morte. La mia formazione disordinata, un po’ verde e un po’ radicale, anticomunista ché avevo gioito a vedere il muro cadere. Qualche mese dopo sarebbe uscito “Fino alla fine del mondo” e avremmo scoperto Wim Wenders con l’ingenuità provincialotta di chi crede di aver scoperto un universo estetico e di comprendere cose che alla maggior parte dell’umanità sfuggono, solo che poi il mondo non finisce, si cresce, i gusti cambiano, e più si raffinano più ci si vergogna della propria ingenuità. Rivisto oggi, quel film mi fa tenerezza nel suo essere così pretenzioso, ma la colonna sonora era zeppa di tutti quelli che amavo di più. La primavera successiva sarebbe uscito Out of Time e poi, nel giro di tre o quattro anni, alcuni dei dischi più meravigliosi della storia, altro che Keats e quel fascista di Yaets. Niente a che vedere con l’evanescenza del ricordo di una chiacchierata in cui credo di non essere riuscito a far entrare Oscar Wilde.
Il 1990 fu un piccolo giro di boa, non voglio scendere quella china che, prima che tu te ne accorga, ti porta dalla riflessione ragionata sul ricordo alla retorica sciapa di Walter Veltroni, però lo fu, un giro di Boa. Nella nostra ingenuità di ragazzini, ci saremmo esaltati nel vedere che tanta della bellezza che avevamo coltivato con pazienza da giardinieri sarebbe diventata mainstream.
A dire il vero, si sentivano i primi botti di guerra proprio al confine, ma non ricordo di averci fatto caso. Dovevano passare un paio d’anni ancora, perché tutti iniziassimo a chiederci, guardando la gente cadere sotto i colpi dei cecchini mentre andava al mercato, come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto?
In realtà, di quell’estate del 1990 mi è rimasta solo un’eco vaga di un senso di spaesamento euforico, ma forse erano solo i diciott’anni e – eddai metticela una citazione di De André – mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani. Da lì in poi, da quel giorno in poi, tante cose avrei dovuto fare, alcune le ho fatte, più o meno benino o malino e altre no. Oggi, prendendo questo anniversario come scusa per fare il mio esercizietto di nostalgico ombelichismo, penso a tutti quelli che ho conosciuto, nel frattempo, a quelli che sono rimasti e a quelli che per vari motivi non ci sono più e questi ultimi, purtroppo, sono molti più di quanto sarei disposto ad ammettere. Il poeta canterebbe: live your life filled with joy and thunder. Se ci riesci.
La maturità non serve a nulla, la scuola non serve a nulla, nessuna istituzione serve a nulla se non ti insegna che la caratteristica distintiva del passaggio degli homo sapiens sapiens su questo pianeta risiede nel cambiamento e che la nostalgia è la forma più alta e diabolica di inganno.
Nessun giudizio, voto, verdetto emanato da svogliati impiegati statali sarà mai un predittore del tuo successo nella vita, qualunque significato tu dia alla parola successo. La mente umana è duttile, lo spirito è flessibile, l’anima cresce. Ognuno di noi ha bisogno degli stimoli giusti e dell’ambiente adatto a sbocciare e fiorire. Se mi dite che questi stimoli si trovano nella scuola non vi voglio contraddire, ma concedetemi il beneficio del dubbio. Lo dico con il massimo rispetto per chi ci lavora.
Io mi sono convinto in questi anni che due o tre istituzioni vadano ripensate radicalmente, nelle strutture, nelle infrastrutture e nei processi. La scuola è fra queste. Le altre sono il carcere, l’amministrazione della giustizia e il fisco. Ne sono convinto da tempo, ma non voglio certo evangelizzare nessuno. Al limite far ascoltare le mie ragioni, quando mi rimane un po’ di tempo libero.
Sentitevi liberi di credere che la scuola vada bene così come è e che io abbia torto e che la maturità sia quel momento cruciale in cui l’individuo ha l’onore e l’onere di mostrare alla comunità e al sistema di essere pronto ad entrare nel mondo dei grandi. Probabilmente è proprio così.
Un paio d’anni dopo quel sette luglio del 90, un giorno, ero a Roma con mio cugino. Gli proposi di andare a visitare la casa di Keats e Shelley a Piazza di Spagna. Salimmo su al primo piano e ricordo che mi misi a fotografare le librerie stracolme di volumi antichi. Poi, mentre lui parlava con la guida, dalla finestra mi misi a osservare i turisti su Trinità de Monti. Chissà, mi chiedevo, cosa avrà visto il John Keats venticinquenne, tisico, prossimo alla morte, da questa stessa finestra, centosettanta anni prima. Chissà se ha intuito per un attimo, unite e indissolubili, la profondità della sua tragedia e l’immensità della sua fortuna. Un argomento di cui avrei potuto parlare benissimo durante il mio esame di maturità. Non credo di averlo fatto, ma non mi ricordo più tanto bene.

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